Bio

1910

Il governo italiano sta preparando gli animi per l’avventura libica al fine di dominare il “mare nostrum”, cacciando il turco invasore.
La banda municipale di Brescia suona nelle piazze “Tripoli bel suoi d’amore” e i contadini bresciani, come quelli siciliani e dell’Italia tutta, sono pronti a combattere, con la faccia spersa sotto il casco coloniale, una guerra che avrebbe avuto inizio solo un anno dopo.
E a Brescia in un torrido agosto, nella notte delle stelle cadenti di S. Lorenzo, di quell’anno nasce, in campo fiera, in una casa con balconcino, Oscar Di Prata, di padre aristocratico e di madre, dolce e bella, di origine contadina. I genitori provengono dal Friuli, da una cittadina chiamata PRATA perché, già allora, alcuni anni prima dell’inizio della grande guerra, si sentono italiani.
Ed è in quel quartiere diventato famoso per i suoi «gnari» che Di Prata passa la sua infanzia.

1917

Senza aver sentito parlare d’altro che di guerra e carestia, Oscar Di Prata comincia a frequentare le scuole elementari.
Ogni sua esperienza di bambino che scopre il mondo si collega a quei discorsi; e le scoperte della scuola, delle lettere dell’alfabeto, dei compagni, delle parole coincidono adesso con gli atteggiamenti ch’egli vede nei dipinti, nelle sculture, nei bassorilievi delle chiese, nelle statue che ancora oggi ornano alcuni muri di cinta delle ville padronali dei Ronchi e dei viali di Brescia est, ossia della Brescia bene. Da adolescente non disdegna la letteratura (diventerà anche poeta e saggista), ma si interessa particolarmente al disegno e alla pittura.

1928

Di Prata frequenta l’Accademia a Venezia. Le condizioni di povertà dignitosa della famiglia non gli consentono di sperperare, anzi, alle volte, deve far bastare un uovo sodo come pranzo quotidiano.
Le sue qualità innate emergono fin dai primi quadri, (è proprio in questo periodo che vince il prestigioso premio Magnocavallo con l’opera Fanciulle al camposanto); eseguiti con la passione del neofita si vedano: il Ritratto della sorella del 1926; La sorella Odralda, del 1927, lo splendido Ritratto dell’amico di grande introspezione psicologica, del 1929; e Gesto d’amore che raffigura un giovane discinto che offre un bouquet di fiori all’amata dai seni nudi, un’opera di stile rinascimentale con richiami agli affreschi pompeiani, del 1932.

1933

Gli apparecchi radio si moltiplicano per le città italiane colmando di canzonette e di parole del regime i bicchieri vuoti delle coscienze.
È di quell’anno la Composizione figurativa, in cui è evidente l’influenza di Rouault, ma che denota già una personalità decisa e autonoma, sia nel colore che nell’impianto..

1933-1936

Un gerarca bresciano, suo estimatore, lo stimola a partecipare ad una mostra nazionale di pittura a tema libero. Di Prata, anche se riluttante, aderisce all’invito convinto di andare a Roma, o gratuitamente, o almeno, con il contributo del minculpop (ministero per le attività culturali e popolari). Viene premiato per una grande tela che conserva ancora nel suo studio e che rappresenta una scena di violenza veramente accaduta, dipinta con realismo e saggezza coloristica, ma Roma rimane una chimera, un sogno. Gli rimandano il quadro e una lettera di encomio. I giornali nazionali dell’epoca danno ampio rilievo all’opera dell’artista bresciano elogiandone, appunto, l’equilibrio compositivo e la forza espressiva.
Sono centinaia i lavori “giovanili”, purtroppo la maggior parte di essi è andata distrutta durante la guerra. Ciò che si è potuto ritrovare nelle collezioni private dimostra una personalità spiccata; si vedano alcuni autoritratti, ritratti e composizioni sacre e profane. È di questo periodo quel Nudo sdraiato, che non ha nulla da invidiare ad opere analoghe dei maestri del realismo. I riconoscimenti piovono: premio nazionale “Tre città riunite Brescia – Verona – Trento”, con un’opera ispirata alle grotte di Catullo a Sirmione, medaglia d’oro dell’Ateneo di Brescia, ecc.

1936-1938

Rivolta dell’esercito contro il governo popolare in Spagna, Guernica dei tedeschi e Guernica di Picasso , Guadalajara, battaglia dell’Ebro, Monaco. L’eco di queste notizie arriva anche a Brescia attraverso la radio e i giornali.
Di Prata dipinge una serie di tele piene di figure dove ricorrente è il tema del martirio, della vittima sacrificale: un S. Sebastiano, o una santa martire qualsiasi circondati dagli amici, dai familiari. Si rivelano in esse la sorveglianza dei mezzi espressivi, che è, appunto, convergenza di facoltà critica e di cultura e la libertà d’invenzione che dà all’opera una propria vita e una propria ragione. La mano di Di Prata risponde, però, a intenzioni precisamente ed esclusivamente artistiche.

1938-1940

Il periodo che corre tra la prima metà del ’39 e la prima metà del ’40 sembra essere l’anno dell’affermazione per Di Prata pittore. Alcune mostre fatte a Brescia, Milano e Genova gli procurano entusiasmo e lo fanno apprezzare da buona parte della critica cosiddetta “posata” e da quella ufficiale.
Gli anni ’39 e ’40 sono quelli della seconda ondata di leggi razziali, della caduta di Barcellona e di Madrid, del patto di Ribbentrop – Molotov per invadere la Polonia da ovest e da est, dello sbarco tedesco in Norvegia, della guerra lampo tedesca attraverso la Francia, dell’Italia che entra nel polverone sollevato dalla Germania, dei bombardamenti tedeschi su Londra, e dei richiamati italiani mandati a fare i tedeschi sulle piste del deserto libico e su per i cocuzzoli “delle reni” della Grecia. Fra questi soldati c’è, spedito in Africa settentrionale, il tenente Oscar Di Prata di Brescia, ufficiale dei bersaglieri.
Il dipingere, lo scrivere, il pensare stesso diventano attività quasi clandestine e impossibili di fronte a queste cose. Non sono in molti a rendersene conto. Ma Di Prata non demorde. Con il candore che lo contraddistingue si porta appresso matite, colori e pennelli e al fronte disegna e dipinge scene di guerra e teschi di animali, e riporta a casa, dopo 6 anni di guerra e prigionia in India, un bucranio di dromedario giacente sulle sabbie infuocate del deserto sirtico.
Il quadro ad olio su carta, appeso alla parete del suo studio fa bella mostra di sè, quasi come un trofeo, con pochi altri: paesaggi e nature morte dipinti in India.

1945

Finalmente la pace è tornata in Europa e nel mondo. Di Prata riprende la sua attività in uno studio di via Manzoni.

1948

Nel 1948 però viene allo scoperto il conflitto di potenza fra l’America non più roosveltiana e l’URSS sempre più stalinista. I popoli, che hanno sperato, secondo l’onda di superficie della storia, in un mondo che unisse i vantaggi “liberali” attribuiti alla prima e le possibilità socialiste attribuite alla seconda, si trovano divisi fra due mondi ostili che esaltano come virtù l’uno il fatto di non voler essere “socialista” e l’altro il fatto di non voler essere “liberale”. Cadono ovunque le solidarietà (vere o finte) della resistenza. Comincia la guerra fredda. E i partiti delle grandi correnti storiche cristiane e marxiste tornano ad agire solo in funzione dei loro principii. Le attività culturali e artistiche, radicate come sono nella realtà esistenziale anche quando la giudicano, o la negano o addirittura l’evadono, si trovano coinvolte in tale frattura fin dai primi scricchiolii. Di Prata, pur restio a far parte di schieramenti si indirizza verso il primo, ma non solo per passione di coerenza. Il suo animo “religioso” lo porta, fin dall’inizio, a considerare l’uomo integrale al centro della vita. E ciò è testimoniato da decine di dipinti, di affreschi, di vetrate non solo del decennio preso in considerazione.

1949-1953

Nei suoi viaggi in Francia e in Olanda riporta una serie di paesaggi bellissimi che rispecchiano l’atmosfera delle città, Parigi ed Amsterdam soprattutto, per i quali non è bestemmia citare a confronto Utrillo e Dufy. Ma è sempre la figura che ha il soppravvento nella sua produzione, La cinesina del 1952, Angelo al Sepolcro del 1954, Città di notte del 1949 ne sono una testimonianza. Nelle opere di questo periodo il maestro rivela doti di descrittività, di narratività, di drammaticità, doti che possono variare dal segno mimetico al gesto oratorio e dalla puntualizzazione naturalistica (o addirittura veristica) alla concitazione teatrale. Di Prata non è mai stato uno “scansafatiche” e ci dà dentro: in un impegno continuo di creatività. Vince, nel 1953 il premio Brescia e anche quello di S. Remo con Natura morta con scarpetta azzurra.

1955-1975

In questi quattro lustri non trascura una pittura cubista di tipo “picassiano” con riferimenti perfino a Braque, soprattutto nella costruzione degli sfondi dove immette le sue figure tipiche. Ma sono i “muri”, le città murate che superano la lezione picassiana per arrivare quasi all’astratto.
Certo Di Prata non si è fatto trascinare nelle polemiche capziose e pseudo culturali che contrappongono figurativismo e astrattismo. Ma per l’esame e l’evoluzione delle opere di questo periodo preferirei parlare del caso di Nicolas De Stael, il pittore di origine russa scomparso tormentato dall’insonnia ad Antibes il 16 marzo del 1955, che Di Prata ben conosceva, e vedere in qual modo sia accaduto che, seguendo le strade del non figurativo egli arrivasse a incorporare degli aspetti figurativi anche tradizionali.
Ecco perché si può affermare che tale polemica è risibile: l’evoluzione di Di Prata ne è la conferma. In effetti si può asserire che figurativismo e astrattismo siano ormai questione di iconografia, o nei migliori dei casi di contenuto. Sono scelte letterario-sentimentali che determinano in genere i vari figurativismi; e scelte letterario-spirituali che determinano i vari astrattismi. Ma per Di Prata il fatto pittorico viene a sè, secondo una sua propria storia che certo risente di tali scelte ma non coincide con esse; la sostanza pittorica insomma non cambia affatto. Inizia in questo periodo la testimonianza umana e, perché no, cristiana di Di Prata su alcuni avvenimenti gravi della nostra storia: le stragi dei treni e delle piazze: l’impotenza apparente dell’uomo contro la bestialità.
L’urlo” del 1969, “Quel treno del Brennero” del 1974, “Quel giorno nella mia città” (28 maggio 1974), “L’incidente” del 1976, ne sono una prova.

1977

Ma che questo suo realismo non sia affatto tendenzioso lo dimostra la tela possente di Paolo di Tarso ad Atene del 1977. È ad Atene che, ritto in piedi in mezzo all’areopago, Paolo afferma: «Ateniesi quel Dio che voi onorate senza conoscerlo, quello io annunzio a voi». La religiosità nelle sue opere non è né bigotta, né cialtrona ma è esplicita e profonda in un momento di grave crisi del Paese; assassinii e stragi provengono dalla negazione dell’uomo, dei suoi valori.

1975-1993

In questo ultimo periodo si verifica un fenomeno che è tipico dei maestri della pittura, ossia che l’arte non possa non finire per avere un senso di “scoperta” e per concludere in concrete “scoperte”, il suo rovello espressivo.
Ecco allora la ripresa, quasi un collegarsi al passato, di una pittura gaia, chiara rivolta all’armonia con la vita, interessata all’universalità e alla positività d’una conoscenza pittorica oggettiva, priva dei limiti angosciosi dell’individuo e d’ogni dominio estraneo alla volontà di vivere. Di tutto ciò è un simbolo la serie di quadri di fiori nel paesaggio, o di figure immerse nella natura dove fanno quasi sempre capolino un capitello o una colonna segno della presenza romana a Brescia. Un ritorno alla felicità pittorica tradizionale della vecchia “India”: la pensata eterna ed eternamente feconda che però non disdegna, alle volte, le fiammate dei “fauves” e degli espressionisti sia nei paesaggi che in alcuni ritratti di questi ultimi anni.
È proprio così che Di Prata supera l’antico divario romantico tra contenuto e forma, dando alla sua opera (parecchie centinaia di quadri, affreschi, vetrate, mosaici, graffiti, migliaia di disegni e incisioni) un significato generale e universale. Il significato che è anche messaggio di chi sa superare gli aspetti gratuiti e diventa un protagonista dell’arte moderna.