Bio

1912

Olves Di Prata nasce a Brescia l’8 settembre in una casa di “Campo Fiera”, in quel quartiere famoso per i suoi “gnari”, la famiglia proviene dal Friuli, da una cittadina chiamata Prata. L’anno in cui nasce Olves è il medesimo che vede l’inizio della grande battaglia della scultura moderna ed in cui Boccioni pubblica il suo appassionato, polemico manifesto in cui invoca la liberazione della scultura dai retaggi letterari e l’adattabilità dei nuovi materiali, quali pelle, vetro e cemento, alla nuova espressività. È nota la sua affermazione che “non c’è paura più stupida di quella che ci rende incapaci di andare oltre i limiti dell’arte che stiamo praticando”. Ma l’avanzamento di Boccioni fu contrastato dalla tendenza alla sintesi e all’essenzialità della forma impersonata dal romeno Costantin Brancusi che sostiene le più antiche tecniche di taglio diretto: egli non paventa però il superamento dei limiti dell’arte figurativa tradizionale. Quando Di Prata si avvicina alla scultura, nel 1932, essa si è già dunque liberata dai vecchi tabù.

1932 – 1945

Olves, da autodidatta, incomincia a scolpire e recepisce, con acume e intelligenza, i vari fermenti e movimenti. Essendo egli nato in una famiglia di artisti, gli è congeniale cimentarsi con la terra creta, con il gesso, con la ceramica, con la pietra etc … Il fratello Oscar, di due anni più anziano, ha già ottenuto successi e premi e segue il suo lavoro con affetto e passione. Anche il cugino Antonio è già un pittore affermato (è morto nel 1952) e si interessa alle ricerche e alla produzione di Olves. Ma il suo carattere di artista nato e di uomo libero che nutre una particolare ammirazione per il grande Donatello e per il moderno Arturo Martini (di cui ricorda ancora oggi la “maternità” di piazza Vittoria distrutta durante la guerra) nonché per Marino Marini, lo portano ad una indipendenza di scelte culturali e umane di originalità creativa. Questi tentativi iniziali rivelano anche un profondo interesse per l’arte arcaica. Si tratta di figure totemiche prevalentemente frontali ed erette, che riprenderà negli anni cinquanta e sessanta. Egli vive insomma fin dall’inizio la sua esperienza artistica con quell’indipendenza che ne ha sempre contraddistinto l’opera e il personaggio.

A proposito di indipendenza il fratello Oscar mi confidava che durante la Repubblica di Salò (ottobre 1943 – aprile 1945) Olves era stato più d’una volta fermato dai repubblicani perché era considerato un “elemento politicamente pericoloso” ed egli ricordava a coloro che lo vessavano, non solo che non si era mai interessato di politica, ma che aveva un fratello che combatteva in Africa come ufficiale dei bersaglieri; ciò bastava perché potesse essere rimesso in libertà. “Avevo preso da mio padre, che era un aristocratico, a fare delle scelte precise di indipendenza anche nel lavoro … volevo scolpire quando mi veniva l’estro, senza imposizioni”. Buono d’animo e generoso con amici e colleghi, “non aveva mai una lira, dice Oscar, il danaro addosso gli bruciava. La produzione dal 1932 al 1945 non è vastissima e poi le vicende belliche non offrivano molte possibilità ad un artista “liberale” e per certi versi anarchico come Olves.

1945 – 1947

Nel 1945, appena conclusa la seconda guerra mondiale, emigra in Francia perché ritiene la nazione cugina la culla dell’arte contemporanea e per “ragioni di studio e di ricerca”, con quel pizzico d’avventura che lo caratterizza. Passa il confine clandestinamente, aiutato dai contrabbandieri italiani e francesi, e s’imbatte, suo malgrado, in una sparatoria dalla quale esce illeso. Raggiunge Parigi. Anche in Francia il dopoguerra è duro, ma Olves finalmente può vivere nella capitale dell’arte moderna che aveva ospitato fra gli altri l’italiano Amedeo Modigliani e lo spagnolo Pablo Picasso e dove il fermento artistico era ritornato vivissimo dopo gli anni bui della guerra e dell’occupazione. Che ricordo hai del soggiorno parigino? La risposta è laconica: ‘Vivevo come un bohemien, il mio pasto quotidiano consisteva in un filone di pane caratteristico, ieri come oggi, in Francia, ma lavoravo ispirandomi ai grandi maestri del passato e della modernità che vedevo ogni giorno al Louvre e negli altri musei e gallerie private. Ma nei particolari non so dirti qual è stata la mia vita in Francia, perché a distanza di cinquant’anni non ricordo nulla”. Purtroppo le traversie di una vita vagabonda condannarono alla dispersione e alla distruzione parte della produzione francese. Infatti di questo periodo non sono riuscito a trovare nulla se non qualche testimonianza grafica. Da questi disegni si denota però una grande capacità inventiva e la spontaneità creativa tipica dei maestri del Novecento.

1947 – 1970

Olves ritorna a Brescia e riprende a lavorare. L’esperienza francese gli ha molto giovato e infatti in alcune opere di questo periodo si denota una fusione di modernità e tradizione, in un linguaggio che si propone di andare al di là del momento particolare senza prescindere da esso, dilatandolo ed essenzializzandolo in una dimensione più larga, non compromessa con il contingente, anche se non ignora i grandi avvenimenti storici come ad esempio la figura sublime del Papa bresciano Paolo VI, Giovanni Battista Montini, eletto nel 1963.

Olves è stato infatti, con il fratello Oscar, amico di padre Giulio Bevilacqua, il cardinale parroco di via Chiusure che gli ha commissionato sculture e medaglioni raffiguranti Papa Montini. Ecco in quegli spazi, che dalla scultura finiscono per essere determinati, anche in senso architettonico, le “Madri”, Madonne con il Bambino, i “Colloqui” di due, tre, quattro figure di una purezza che nulla ha a che fare con il purismo, essendo insieme il riaffiorare di un’antica tradizione, come quella lombarda che sostanzialmente aveva germinato nelle vecchie cattedrali della Padania e la declamazione tutta particolare di un naturalismo per certi versi eccentrico, una sintesi di primitivismo e di ricerca di una nuova forma che s’era già, d’altronde, imposta in quelle ormai remote esperienze d’inizio secolo e che Olves ben conosceva, avendole scoperte durante il suo soggiorno parigino. Siamo qui ad uno dei nodi centrali della scultura dell’artista bresciano, che ha saputo caricare di nuova attualità le memorie antropologiche della terra lombarda con esiti gravidi di senso, nell’antiretorica della nuova forma.

1970 – 1990

Il ventennio che corre fra il 1970 e il 1990 è il più proficuo per il nostro artista e il suo studio in via Crispi diventa un vero e proprio atelier con allievi di tutte le età. Fra questi emerge per le sue qualità di scultrice Lucia Petrera che diventa anche cara amica e sua modella ideale. Olves sa prendere la vita così com’è, per ciò che può dare sia di positivo che di negativo. L’amicizia è sacra per lui e quindi i suoi allievi diventano amici, compagni di scampagnata e di gite in Maddalena, sui laghi e nelle città d’arte. Nasce quindi e si protrae per due o tre lustri un sodalizio cordiale anche con i suoi collezionisti. Ma qual è l’aspetto artistico che interessa in questo ultimo periodo della sua attività? Importante è il ciclo che definisce “canti d’amore” dove trova posto, in sintesi assai indovinata, l’affetto materno; sono decine le sue Mamme con il Bambino in cui lo scultore raggiunge la purezza plastica, in linee e piani di una ineffabile armonia, che si richiama addirittura, in taluni casi, alle grandi opere del periodo romanico.

La maternità di Olves vuole esprimere il sublime sentimento che racchiude la nascita del genere umano e l’apoteosi che riceve dall’apparizione nel mondo del Cristo, scolpito nelle sue natività per le chiese e per la devozione privata quale simbolo di unione con il Divino. C’è quindi un’ansia di spiritualità arcana, cioè indefinibile, come una condizione della vita, anzi dell’esistenza: si tratta di immagini di una vitale concretezza. E poi i “colloqui”, personaggi sacri e profani tanto vicini che sembrano sussurrarsi all’orecchio parole d’amore e d’amicizia, nell’intimità, più che conversare a voce alta. È un dialogo intimo e cordiale, non urlato, ma raccontato. Ciò è tipico di un animo nobile e raffinato: queste immagini realizzano un’ansia poetica. Esse sono valide nel nostro tempo anche se hanno un antico spessore di tradizioni solide che si rifanno, l’ho già accennato, alla cultura lombarda. Si può ben dire, dunque, che un senso drammatico si è insinuato entro le giunture della concezione universale; è nel “dialogo” che si riscoprono le ragioni insormontabili di un ordine alla fine giusto dell’esistenza.

Olves in questi anni non ha più scolpito, ma ha continuato a dipingere perché da artista completo non poteva ignorare questa forma d’arte figurativa. Un cenno quindi lo merita anche questo aspetto della sua attività. I suoi quadri sono quasi sempre dipinti con colori vivi che richiamano i fauves e i postimpressionisti (la lezione francese si fa sentire anche qui). Il colore è gettato a grumi sulla tela, la costruzione del quadro è quasi una provocazione. Il blu, il verde, il giallo, giocati nelle varie gradazioni emergono come una forza determinante in meditatissime composizioni che paiono estemporanee e perfino casuali. Ecco perché nelle sue opere c’è originalità e non si è originali senza comunicare un bene raro. Ciò che piace in lui è l’accordo fra i toni pieni, costruttivi, il disegno marcato e conciso, di modo che le sue forme nascano da questa contemperanza equilibrata, salda e insieme fortemente colorita. Chiedo infine a me stesso e a tutti i “cultori dell’arte contemporanea” se Olves Di Prata non abbia ormai diritto a un posto in prima fila nella storia della pittura e scultura bresciana d’oggi. Egli merita tutto il nostro rispetto per la nobiltà della vita, per l’altezza del sogno che ha saputo concretizzare.